Una nuova era nella progettazione urbana

Valeria Fedeli, docente di Pianificazione e Politiche Urbane presso il Politecnico di Milano, approfondisce per Urban Stories il futuro delle città italiane e internazionali come aggregatori di bisogni, soluzioni e utilizzi virtuosi delle nuove tecnologie.

17/11/2022

Gli ultimi due anni hanno cambiato profondamente la nostra vita, sotto molteplici aspetti. E lo hanno fatto in modo ancora più radicale per chi risiede in una città: da una parte sono risultate evidenti fragilità, talvolta insospettate o inattese, e dall’altra il modello della vita urbana è stato messo in discussione, dimostrando che un’altra vita è possibile o addirittura necessaria. Di fronte a questo doppio scacco, messe nelle condizioni di fare scelte diverse rispetto al passato, le città hanno denunciato una certa difficoltà a innovarsi”.

Valeria Fedeli, docente di Pianificazione e Politiche Urbane presso il Politecnico di Milano

Valeria Fedeli, docente di Pianificazione e Politiche
Urbane presso il Politecnico di Milano

Valeria Fedeli, professoressa di Pianificazione e Politiche Urbane presso il Politecnico di Milano, prende le mosse dalla pandemia per evidenziare una delle trasformazioni più evidenti e più radicali delle città italiane ed europee: “La fragilità delle città è un tema che ha sempre caratterizzato il dibattito sul ruolo degli agglomerati urbani nelle società contemporanee. Eppure gli ultimi due anni hanno accelerato radicalmente diversi fenomeni già in atto, fino a porci domande altrettanto radicali: ‘che ruolo hanno oggi le città’?” La professoressa non ha dubbi nell’inserire questo dibattito all’interno di una cornice più ampia, la cui analisi coinvolge molte discipline e tocca molti ambiti di indagine sociale: “La risposta non può essere banale: la città è ancora un sistema attraverso cui le persone possono trovare soluzioni ai propri problemi, o dobbiamo invece pensare che nel contesto attuale abbia perso la propria centralità, diventando un luogo in cui le fragilità diventano più complesse?”

Soprattutto nella fase più acuta del contagio, nella prima metà del 2020, abbiamo infatti assistito a scene di città consolidate che si sono svuotate, con i cittadini che si trasferivano sul territorio, in comuni più piccoli e meno strutturati, anche grazie alla diffusione di strumenti e meccanismi di relazione e lavoro da remoto. “Cambia lo scenario, ma non cambiano le domande che queste persone rivolgono al luogo dove vivono”, continua Fedeli, “la cosa più problematica è che se da una parte le città vedono venir meno le proprie caratteristiche tradizionali, dall’altra i territori, che non attendevano pressioni significative e che potrebbero diventare protagonisti di nuove domande di città e questioni urbane, non hanno sufficienti risposte, risorse e strumenti. Questo vale sia per le dinamiche demografiche che per le dinamiche di impresa”.

Non stiamo parlando di un fenomeno nuovo, perché nel corso degli ultimi anni sono molte le funzioni che sono uscite dalla città grazie alla maggior facilità di spostamento e di collegamento con altri luoghi. “Ma c’è sempre stato un buon bilanciamento e poche città hanno davvero perso significato diventando poco più che dormitori o luoghi di passaggio. Io non credo che in questi anni andremo in questa direzione”, sottolinea Fedeli, “Ma dobbiamo interrogarci sui fattori che concorrono a queste fragilità: gli abitanti che non trovano le risorse e l’offerta che avevano in mente, e le istituzioni che non sono in grado di fornirle”. I più esposti sono naturalmente i soggetti a cui le istituzioni dedicano minori attenzioni. “Penso alla condizione lavorativa delle donne, alle difficoltà occupazionali dei giovani e all’integrazione sociale dei migranti”.

La risposta a queste domande latenti non può che essere l’innovazione. Di struttura, processo e gestione. “Molte città europee lo stanno facendo, e tra le tante fragilità e processi di indebolimento a cui stiamo assistendo si pone una grande questione: la capacità delle istituzioni che si occupano di città di aiutare persone e luoghi a essere meno fragili e meno esposti all’incertezza e alla transizione che stanno vivendo”.

La pandemia ha cambiato la configurazione delle nostre città e gli utilizzi degli spazi condivisi

La pandemia ha cambiato la configurazione delle nostre
città e gli utilizzi degli spazi condivisi



Nel nostro Paese, riprende Valeria Fedeli, il primo passo verso la ricerca di soluzioni a queste fragilità deve essere strutturale: “Partiamo tutti da un’idea dell’Italia come caratterizzata da un grande deficit strutturale, anche a livello quantitativo: strade che non abbiamo, ponti che non stanno in piedi e una rete digitale che non arriva ovunque. C’è un passato che pesa sul nostro presente in termini di quello che non c’è. Ecco allora che il tema di oggi non è più di quali infrastrutture abbiamo bisogno, ma di come possiamo costruirle in modo che siano effettivamente dei progetti ad ampio raggio di territorio: devono funzionare bene, essere rispettose dei luoghi e costituire una risorsa per i territori che attraversano”.

L’infrastruttura non più come connessione tra due punti, ma come strumento di creazione di ricchezza per tutti gli spazi intermedi. “Ci vogliono progetti infrastrutturali intelligenti e politiche quadro che aiutino in questa direzione, facendo sì che le infrastrutture non siano una semplice opera, ma un sistema, un progetto, una visione per i territori che servono”.

Agli estremi di queste infrastrutture e nelle mille ramificazioni che le connettono su un territorio articolato come quello italiano, vi sono le città. “Città che hanno in larga misura un patrimonio immobiliare e una struttura urbanistica datata, concausa delle fragilità di cui abbiamo parlato prima” aggiunge Fedeli, “E per questo la rigenerazione urbana non deve diventare un semplice slogan, ma la cifra di un progetto a lungo termine. Più che di rigenerazione urbana mi piace usare il termine inglese regenerating urbanity, al centro della Conferenza EURA del 2022, che sottolinea la natura processuale di questa attività e non solo l’esito finale. Le città più innovative stanno lavorando per creare non solo spazi, ma condizioni per l’urbanità e intendono dunque la rigenerazione come un processo e non solo come un progetto che mette a posto uno spazio aspettando che qualcosa vi accada dentro”.  

L’esempio che porta la professoressa è quello di BAM, la Biblioteca degli Alberi di Milano: un concept di spazio urbano nuovo con eventi culturali che lo animano, un progetto di qualità capace di produrre ambienti di socialità e relazione.

Milano è stata per molti versi l’apripista di questo approccio urbanistico nel nostro Paese: “A mio avviso sono due le cose che il capoluogo lombardo dovrebbe essere in grado di ‘esportare’. Da una parte”, sottolinea Fedeli, “alcuni dei grandi progetti di trasformazione urbana e rigenerazione hanno messo in discussione cose che davamo per scontato, si è smesso di ragionare sui progetti in ottica di ‘tot funzioni, tot parcheggi’: alcuni grandi operatori e il comune hanno avuto il coraggio di mettere in discussione questi standard, immaginando un progetto capace di scardinare le regole consolidate.

Dall’altra parte”, continua la professoressa, “Un elemento importante è che alcune delle grandi trasformazioni di Milano sono situate fuori dalla città, come le Aree Expo: zone rimaste ferme per decenni perché considerate periferiche. Oggi, sull’esempio delle grandi città europee, abbiamo imparato a capire che possono stare fuori dai confini di Milano perché stanno dimostrando di avere la stessa capacità di generare qualità, esattamente come avviene nel centro della città. Cito volutamente operazioni ancora aperte per sottolineare l’importanza dell’aspetto progettuale a lungo termine che deve sempre guidare questo genere di operazioni in cui trasferire il percepito di qualità della vita e di innovazione, superando la contrapposizione tra centro e periferia.

Mi piacerebbe tra 10 anni capire se in questi processi attivati appena fuori dai confini di Milano, la città abbia ritrovato altri pezzi di se stessa su cui costruire in termini di qualità, sostenibilità e visione. Perché Milano è un outlier in Italia e uno dei pochi luoghi che possono permettersi di fare operazioni di questo tipo, candidandosi a esempio per altre città del nostro Paese.”, conclude Valeria Fedeli.

Il tema di oggi non è più di quali infrastrutture abbiamo bisogno, ma di come possiamo costruirle in modo che siano effettivamente dei progetti ad ampio raggio di territorio: devono funzionare bene, essere rispettose dei luoghi e costituire una risorsa per i territori che attraversano

Il termine inglese regenerating urbanity, che sottolinea la natura processuale di questa attività e non solo l’esito finale. Le città più innovative stanno lavorando per creare non solo spazi, ma condizioni per l’urbanità e intendono dunque la rigenerazione come un processo e non solo come un progetto che mette a posto uno spazio aspettando che qualcosa vi accada dentro

Sull’esempio delle grandi città europee, abbiamo imparato a capire che possono stare fuori dai confini di Milano perché stanno dimostrando di avere la stessa capacità di generare qualità, esattamente come avviene nel centro della città